Energia nucleare, energie alternative, crisi del petrolio, ricerca sui motori ad idrogeno, biomasse e biocarburanti, sommovimenti sociali e rivoluzioni politiche nei paesi dell'Africa settentrionale e della penisola arabica, tra i maggiori produttori di oro nero e gas naturale: l'energia muove il mondo, ma il mondo dell'energia è cambiato, sta cambiando, e ancora di più cambierà nei prossimi anni e decenni. In che modo, e quali saranno le conseguenze sull'ordine politico ed economico mondiale è questione aperta alle discussioni.
Analisti e decisori in tutto il mondo stanno cercando di orientarsi in un mondo che ha subito una trasformazione radicale in pochi mesi di tempo. Dai recenti sconvolgimenti globali è possibile trarre alcune indicazioni, che portano ad una conclusione: nulla sarà più come prima, le regole ed i meccanismi che hanno regolato il mondo fino ad appena ieri – ed in parte ancora oggi – vanno messe nel cassetto.
Un ordine nuovo è alle porte. E all'Unione Europea rimane una sola opzione, per soddisfare la richiesta di energia: il nucleare. Vediamo insieme quali sono queste indicazioni.
[tit:Repressione in cambio di petrolio]
L'accordo di swap tra Occidente con il Medio Oriente – il silenzio dei paesi industrializzati nei confronti della repressione sociale e politica nei paesi produttori in cambio del loro petrolio - è ormai carta straccia. Il prezzo del petrolio ha costituito per decenni il meccanismo di salvaguardia del potere in Arabia Saudita, in Iran, negli emirati del golfo Persico, in tutti i paesi produttori. Quando le condizioni di politica e sociale interna di uno o più di quegli Stati lo rendeva necessario, il prezzo del barile cresceva. Questo assicurava ai diversi regimi le risorse finanziarie di cui avevano bisogno per ottenere il consenso sociale.
Con una quotazione del barile intorno ai 95 dollari, le casse dei paesi membri dell'OPEC si aspettano introiti per qualcosa come $1.000 miliardi l'anno: una cifra che si pensava essere più che sufficiente per 'comperarsi' il diritto a restare in sella.
Non c'è da scandalizzarsi: Egitto, Siria, Arabia Saudita, Iran, emirati vari, sono tutti paesi dove il concetto di democrazia è radicalmente diverso da quello diffuso in Occidente. Qui, il consenso non lo si vince con il voto popolare, che pure esiste, ma assicurando servizi e beni a quelle classi e a quei settori che controllano i punti strategici del regime: esercito e alti rappresentanti della religione, prima di tutto, ma anche grandi proprietari, rappresentanti delle compagnie petrolifere e delle altre (poche, per la verità) aziende di grande dimensione in quei paesi.
Tassi di disoccupazione elevati, inflazione in aumento, difficoltà economiche, una repressione sempre più forte e feroce caratterizzata da abusi da parte delle forze di polizia e di sicurezza, una generale mancanza di libertà. Se aggiungiamo che, in tutti questi anni, le classi medie e basse hanno visto una ricchezza sempre maggiore concentrarsi nelle mani di un numero di persone sempre minore, possiamo comprendere come si sia arrivati alla rottura del meccanismo e, come conseguenza ultima, all'esplosione del conflitto tra regimi e cittadini.
Il contagio è stato anche molto più rapido di quanto gli analisti si aspettassero – come spesso succede, la realtà si muove ad un passo molto più veloce dei cosiddetti esperti, che alla fine si trovano a rincorrerla più che a prevederla - e potrebbe farlo di nuovo, almeno per quanto riguarda il sentimento del mercato.
La (dis)percezione del rischio e il timore di carenze fisiche sono sempre stati fattori di mercato di gran lunga più potente rispetto alle realtà operative coinvolte. Questo era il caso nelle diverse 'crisi petrolifere' che si sono succedute negli ultimi decenni - 1973, 1979, 2008 e 2011. Solo che, oggi, c'è un fattore in più, che aggiunge complessità a complessità.
[tit: Arabia Saudita, addio alla stabilità]
Per decenni il regno wahabita è stato uno dei pilastri del sistema. Il suo primato economico era sostenuto da quello religioso assolutamente indiscusso in tutto il mondo arabo ed islamico. Un regime feudale, in cui vige tuttora una forma di schiavismo non ufficiale – le decine di migliaia di lavoratori stranieri, indiani, pakistani, bangladeshi, filippini e molti altri ancora, a cui non vengono riconosciuti nemmeno i diritti fondamentali.
La crisi economica mondiale ha colpito duramente il Paese: la caduta del prezzo del greggio fino ai 30 dollari circa del 2009 ha costretto a cancellare molti progetti di sviluppo e scatenato una forte crisi sociale. Il regime ha tentato di cavalcare il momento con la ricetta tradicionale, una miscela di 'concessione incontra repressione': ha stanziato 129 miliardi di dollari di spesa per migliorare le condizioni sociali, ma ha anche dimostrato che non ha remore a usare tattiche brutali. In tutta la penisola arabica è esploso il conflitto tra le due parti del mondo musulmano: sciiti e sunniti.
La famiglia reale wahabita, così come tutti i diversi emiri della penisola, appartengono a questa fazione, l'Iran è invece sciita: un fattore di politica internazionale che ha aggiunto veleno a veleno. Il problema con la risposta che il regime saudita ha voluto e saputo dare alle rivendicazioni politiche e sociali, da qualunque parte arrivassero, è che è solo una copertura di sopravvivenza a breve termine, non una strategia a lungo termine. Il rifiuto di re Abdullah di impegnarsi in una riforma politica significativa, ora, rende più difficile evitare complicazioni e conflitti sociali domani. Purtroppo per il mercato del petrolio, l'Arabia Saudita è anello cruciale quando si tratta di mantenere la stabilità del mercato. Con i suoi 9 milioni di barili estratti al giorno, l'Arabia Saudita domina il mercato del petrolio. Ciò significa che l'economia mondiale continuerà a fare i conti con le vicende politiche e sociali di un unico produttore.
[tit:Un mercato meno flessibile di quanto possa sembrare]
Nel breve volgere di meno di tre anni, la quotazione del petrolio è oscillata tra 147 e 33 dollari al barile: con variazioni di questa consistenza è estremamente difficile per le aziende di tutto il mondo fare previsioni di investimento.
Le aspettative per il futuro prossimo venturo non sono molto facili (anche perché, come abbiamo già capito, il prezzo del petrolio dipende da fattori più politici che economici). Nei paesi dove il malcontento popolare è già esploso, la produzione di greggio è crollata: in Egitto, dove i militari hanno fatto di tutto per salvaguardare i beni energetici chiave, la produzione è calata; l'Iraq non è mai riuscito a tornare sopra i 2,7 milioni di barili al giorno dopo l'invasione del 2004. Il petrolio libico è di fatto scomparso dal mercato dallo scoppio della guerra civile e anche le prospettive per il dopo-crisi non sono incoraggianti, visti i danni che il conflitto sta apportando alle infrastrutture di estrazione, stoccaggio e trasporto. La questione con il greggio libico non è tanto la quantità, ma la qualità. Il conflitto in Libia mette a rischio la produzione globale di petrolio per un misero 1%, eppure il prezzo del greggio sul mercato ha fatto un balzo del 30%. Se anche lo Yemen dovesse cadere nella trappola del conflitto armato interno, la situazione potrebbe precipitare: non tanto per la quantità di petrolio che Saana è in grado di produrre, quanto per il fatto che ci troveremmo, a quel punto con tutti i principali punti di passaggio del petrolio arabo – golfo persico, stretto di Hormuz e Bab-el-Mandeb – in preda a sconvolgimenti politici.
[tit:Un mondo dominato dal binomio Arabia-Cina]
Se la domanda cinese crolla - uno scenario poco discusso, ma che non si può escludere - i paesi esportatori di petrolio si troverebbero in guai seri. A differenza del 2008, quando l'Arabia Saudita, insieme ad altri produttori chiave del Golfo, fece in modo di guidare e controllare i prezzi del greggio, oggi sarebbe difficile riuscire a mantenere il controllo della situazione senza dover ricorrere alle riserve in valuta estera. E se le quotazione del barile dovessero scendere sotto i 50 dollari, allora ci troveremmo di fronte ad una guerra di sopravvivenza, ad un tutti contro tutti che non porterebbe nulla di buono per l'economia mondiale.
I regimi produttori sono stati fortunati a sopravvivere alla crisi del 2008-09, ma i miracoli non si ripetono...
I paesi esportatori hanno necessità di mantenere elevati i prezzi, e questo sigifica che potrebbero (potranno) fare ricorso a manovre protezionistiche e populiste pur di riuscire nel loro intento. Tradotto: nazionalizzare quote importanti delle rispettive industrie di estrazione, in quei paesi che ancora non l'hanno fatto – porre paletti e limitazioni all'attività delle aziende estere. Ciò significa che sarà ancora più rischioso, per le aziende occidentali, investire in attività upstream in paesi del Medio Oriente e dell'Africa settentrionale. L'Occidente sarà ancora disponibile a sottostare a questo giochetto? [tit: L'Occidente e l'UE]
Dal sud del Mediterraneo l'Europa non riceve soltanto il petrolio greggio 'dolce' di cui ha bisogno per lavorarlo nelle sue raffinerie, in gioco ci sono anche il 16% delle forniture di gas per i paesi della cosiddetta UE-15 (ovvero, la parte occidentale del continente).
L'Italia, per esempio, compra il 43% del gas che consuma proprio dal Nord Africa. Il fatto che l'Unione Europea non sia riuscita ad agire in modo efficace porta diritto ad una prospettiva di lungo termine molto scomoda per le forniture energetiche europee. L'UE non ha semplicemente la spina dorsale politica per affrontare la situazione in maiera politicamente più efficace ed economicamente più produttiva. E quel che è peggio, i paesi produttori lo sanno.
La Russia una alternativa affidabile? Non esattamente. Come la BP ha già scoperto e le altre aziende energetiche non tarderanno ad imparare, operare in Russia è alquanto rischioso, perché ogni contratto è agganciato ai capricci politici del Cremlino, tradizionalmente molto ondivago.
[tit: La Cina]
Pechino è già ufficialmente il più grande consumatore mondiale di energia e si aspetta di aumentare il suo fabbisogno di energia del 45% entro il 2035. In altre parole, il gigante asiatico dipenderà, per soddisfare la sua sete di energia, dalle importazioni per l'impressionante percentuale dell'80%. Con due conseguenze molto importanti per il quadro politico internazionale: la Cina dovrà rastrellare quanta più energia possibile sul mercato mondiale, causando un forte rialzo dei prezzi, da una parte, mentre, dall'altra parte, l'enorme quantità di titoli del debito pubblico USA che Pechino ha in mano garantisce alla Cina un grande potere sugli USA.
Fino ad oggi la Cina ha badato soprattutto a costruire e rafforzare le relazioni con i paesi produttori del Medio Oriente e della penisola arabica. Ha investito massicciamente in tutta la regione nel corso degli ultimi anni, tanto che qualcuno parla già di Chirabia o addirittura, Chiran.
Per dirla tutta in modo schietto,
la Cina resta un consumatore di stabilità geopolitica, non un fornitore. Con tutte le incognite che si possono immaginare per il nostro futuro. [tit: Sicurezza e affidabilità delle fonti]
Due terzi delle riserve petrolifere accertate del mondo si trovano in aree politicamente instabili. Quel che è peggio, in molte di queste aree stiamo assistendo ad un vero e proprio ricambio di potere. Cosa significa? Principalmente, che se i paesi consumatori vogliono davvero ridurre la dipendenza dalla produzione OPEC, hanno
una sola possibilità a disposizione: aumentare in modo massiccio la produzione interna. E questo vuole dire energia nucleare. Le energie cosiddette rinnovabili – vento e sole, ma anche le biomasse – non sono al momento arrivate ad un grado di sviluppo tecnologico ed industriale tale da poter assicurare il rispetto dei requisiti di affidabilità e disponibilità di cui l'industria ha bisogno. Tra quaranta anni, forse. E difatti i piani UE per le energie rinnovabili parlano di 2050. Fino ad allora, se il petrolio ed il gas sono fuori discussione, su cosa si può fare affidamento per dare da mangiare alle industrie, ai servizi, al commercio, ai trasporti, alle case del mezzo miliardo di cittadini europei? L'energia nucleare.