Due anni fa, l’11 marzo 2011 si verificava il disastro di Fukushima, il secondo più grave della storia dell’industria nucleare dopo
Cernobyl.
Sono 160 mila i cittadini che sono stati evacuati forzatamente e decine di migliaia quelli che lo hanno fatto volontariamente. Vite distrutte, senza che ancora una sola persona abbia avuto una compensazione adeguata per i danni sofferti. A loro sono dedicate le iniziative intraprese in questi giorni da
Greenpeace in varie parti del mondo.
Secondo il nuovo rapporto di Greenpeace
“Fukushima Fallout” non solo la responsabilità civile di chi fornisce le tecnologie nucleari è pari a zero – dunque chi ha fornito i reattori o le componenti tecnologiche non è legalmente chiamato a rispondere in caso di incidente – ma paradossalmente due delle imprese che hanno fornito le tecnologie che hanno contribuito a provocare l’incidente –
Toshiba e Hitachi – sono coinvolte nelle operazioni di bonifica, dunque lucrano su un incidente di cui sono in qualche modo corresponsabili.
A fronte di un danno stimato fino a
169 miliardi di euro, è stata nazionalizzata l’azienda proprietaria dell’impianto: a pagare il conto saranno i contribuenti giapponesi.
Se guardiamo le convenzioni sulla
responsabilità civile in campo nucleare, vediamo che o esistono limiti molto ridotti alle compensazioni cui è tenuta l’azienda esercente dell’impianto oppure di fatto non esistono strumenti finanziari di protezione. Nel caso di catastrofe nucleare a pagare sono i cittadini, sia in termini di salute e distruzione delle loro vite che economici.
A Fukushima la situazione è ben lungi dall’essere stata risolta: la catena alimentare contaminata, enorme la quantità di rifiuti radioattivi provenienti dalle
operazioni di bonifica (29 milioni di metri cubi), lunghi i tempi e i costi dello smantellamento dei reattori, la cui situazione è tuttora precaria con grandi quantità di acqua radioattiva di raffreddamento da dover stoccare.